BORIS 4

In questo post non parlerò di quanto dopo 11 anni in me ci fosse un conflitto incredibile tra l’attesa del Messia e il timore della delusione, come sempre succede quando qualcosa di epico viene ripreso dopo anni. Non parlerò del fatto che Boris è stata una delle cose più belle prodotte dalla TV in assoluto e abbia ben pochi concorrenti in Italia e che ha vivisezionato la TV dell’epoca regalando ai comuni mortali un affresco iperrealistico (a detta degli addetti ai lavori) di una produzione televisiva, ma mi concentrerò sulla nuovissima stagione e capirete se è il caso di guardarla o meno.

UN PO’ DI CAMBIAMENTI NEL CONTESTO

In 11 anni in Italia si sono susseguiti 9 governi e 2 presidenti della Repubblica, e nel mondo 2 papi, la Brexit, diversi attacchi terroristici, tra i quali l’elezione di Trump. I social sono diventati la principale fonte di popolarità. La TV e il modo di fruirne sono completamente cambiati con l’arrivo di svariate piattaforme streaming e il numero delle serie è cresciuto esponenzialmente. I vari competitor devono quindi alzare l’asticella per rimanere nel mercato: più risate, più lacrime, più ammiccamenti e una scrittura sempre più tagliente o proponendo format nuovissimi. Generazioni americane giovani di dirigenti che spostano il capitale in base al dinamismo e capacità di adattamento della produzione. La troupe di Boris ha perso due figure importantissime: Roberta Fiorentini, Itala l’assistente di produzione, e Mattia Torre, indimenticato sceneggiatore della serie, entrambi nel 2019. La quarta stagione di Boris (su Disney+ dal 26 ottobre) non poteva non tenere in considerazione tutte queste variabili. La domanda è una: Vendruscolo e Ciarrapico riusciranno a portare avanti a quattro mani un percorso iniziato a sei? L’assenza di Torre si farà sentire? La risposta non è così semplice, quindi racconterò un accenno di trama e le emozioni che mi ha suscitato, sperando di non ricorrere troppo agli SPOILERRRRRR.

ALGORITMI, GHOST, SNIP

Non c’è più la rete a supervisionare il progetto ma “la piattaforma”, che, attraverso un algoritmo (un’entità tra divinità e il direttor lup mannar gran figl di putt), decide ciò che può essere prodotto in base a diversi criteri: devono essere presenti un high concept (universale, di facile identificazione per tutti), la storia teen, il ghost del personaggio – il conflitto – e soprattutto il cast deve essere multietnico, in ottica di inclusione. Questi quattro elementi sono il motore della stagione e i personaggi si trovano a fronteggiare queste novità per restare nel mondo della TV. Il tutto, finanziato dalle due società QQQ (Qualità, qualità, qualità) di Diego con il cugino malavitoso calabrese, e la SNIP (So Not Italian Production) di Stanis e Corinna, che ormai formano una coppia di produttori/attori, sempre vanesi e scemi.

Negli 8 episodi, re-incontriamo tutti quelli che ci avevano fatto innamorare della fuoriserie nelle stagioni precedenti, compresi guest star come Nando Martellone (Massimiliano Bruno), Mariano (sempre sia lodato Guzzanti), Karin (Karin Proia), Cristina (Eugenia Costantini) e suo padre (Andrea Purgatori), Glauco (Giorgio Tirabassi) e troviamo un nuovo personaggio interpretato da Edoardo PESCE (ricordatevelo), Tatti Barletta, che dà un enorme contributo alla narrazione. E tutti i personaggi sono coerenti con i loro stessi del passato, il che rende ancora più esilarante il loro tentativo di inserirsi in un contesto così giovane e nuovo.

Ritorniamo a ciò che è cambiato negli ultimi 11 anni, che è riassunto dalle parole di Biascica “nel nostro mondo è cambiato tutto, dov’è finita la poesia di una volta?”. La qualità sostituisce il metodo “a cazzo di cane”, durante la produzione è sempre presente una ragazza che filma per il backstage, ovviamente non pagata, e non sono più tollerati gli episodi di nonnismo o sessismo, in virtù del politicamente corretto. Anche i tormentoni sono rinnovati, confermando l’originalità del prodotto.

RISATE E PIANTINI

Durante la sigla iniziale, anche questa nuova, fa un certo effetto la mancanza del nome di Mattia Torre tra gli sceneggiatori, anche se in tutti gli episodi avvertiamo la sua presenza, tra le risate e i piantini. Soprattutto risate, tantissime. La serie ha saputo reinventarsi e adattarsi ai nuovi scenari, ironizzando sulle abitudini degli italiani e trovando l’high concept che fa immedesimare anche chi non ha mai messo piede in una produzione TV. Mi rimane una domanda, che al momento non ha una risposta: a quando la quinta stagione?

The Gilded Age

Julian Fellowes ritorna dopo Downton Abbey e Belgravia (non ho ancora guardato The English Game), adatta la sua storia per il grande pubblico americano e per questo drama HBO sbarca a New York, e su Sky Serie, a fine 800 nel Gilded Age, appunto. La serie è composta da 9 episodi di circa 50 minuti.

CONFLITTI VISIBILI

Già dalla locandina emerge il conflitto che ci aspettiamo di trovare nella serie: due donne schiena contro schiena, di differente età (che in questo caso simboleggia anche una divergenza sulla visione della vita), coda dell’occhio rivolta verso l’altra donna per tenerla sotto controllo, cromie differenti e anche tessuti molto diversi tra loro, per non parlare del taglio dell’abito.

LA CORALITÀ DI FELLOWES

Fellowes ci presenta, come per le precedenti storie, una coralità eccellente con lo schema a cui ci aveva abituato: all’interno della stesso palazzo avviene il racconto sia dei proprietari, probabilmente ora si chiamerebbero Bezos o Musk, che della loro servitù. La novità è che, anziché essere parte della nobiltà, essendo ambientato negli USA, i ricchi appartengono alla alta borghesia newyorkese. Come in Downton Abbey abbiamo personaggi reazionari e altri progressisti: da un lato della strada vive da sempre la conservatrice Mrs Van Rihjn con la sorella Miss Brook mentre nel maestoso palazzo di fronte si sono appena insediati i giovani e ricchissimi Russell con i loro due figli. Tutti rigorosamente Americani. Una differenza che per ora ho riscontrato con Downton Abbey è il dialogo tra le due parti: mentre oltremanica, i valletti sono abbastanza presenti nella vita dei loro datori di lavoro, anche in veste di consiglieri, in The Gilded Age – per ora, ne ho visto solo due episodi – c’è una netta divisione e sono rare le occasioni di confronto.

VECCHIO vs NUOVO

Ed è proprio nella 61esima strada, angolo con la 5 che ha luogo il conflitto: Bertha Russell è ambiziosa e vorrebbe inserirsi in una società che non vede di buon occhio il “nuovo” e che quindi non ha intenzione di farla accedere al suo mondo. La “vecchia” New York, fatta di possidenti e uomini d’affari, trova volgare e sporco tutto ciò che ha a che fare con le novità, con chi si è arricchito grazie al progresso. Le contrapposizioni della locandina sono riportate nella narrazione: tradizione/rivoluzione, staticità/dinamismo e soprattutto passato/futuro. Coloro che hanno sempre dettato legge, nel profondo temono che il cambiamento possa causare la perdita del loro potere. Vedremo quindi aspre battaglie ambientate in sale da ballo e feste di beneficenza. Gli attori sono tutti americani e si vede.

WOMEN POWER

L’universo di The Gilded Age è prevalentemente al femminile: nonostante per ora non ci sia alcun riferimento al movimento delle suffraggette, siamo nel momento e nel luogo giusto per dare risalto al vento di cambiamento, e sarebbe coerente se alcune delle protagoniste andassero verso quella direzione. Gli accenti sono tutti americani e mi manca Lady Violet – anche se un po’ di wit è stato caricato in alcuni personaggi.

CAST

Christine Baranski (che ho amato in the Good Wife ma che sicuramente conoscete come madre di Leonard di The Big Bang theory) e Carrie Coon (The Leftovers ❤️) sono le antagoniste della serie, ma troviamo anche Cynthia Nixon che ritornerà nell’Upper East Side oltre un secolo dopo in veste di Miranda Hobbes (se non sapete chi è vi meritate di googlarla, mi rifiuto di darvi questa spiegazione), Thaissa Farmiga e fa capolino molto rapidamente ma inconfondibile Jeanne Tripplehorn. Spoiler: sono tutte americane.

PER CONCLUDERE…

Fellowes rimane nella sua comfort zone narrativa. Il fatto di aver spostato le ambientazioni dall’altra parte dell’oceano non è sufficiente per renderlo novità, e sa di già visto. Però è comunque Fellowes, di cui adoro l’eleganza sia dei costumi che del linguaggio e, nonostante sia abbastanza uguale a se stesso, ne voglio ancora e sempre di più. Per cui, se avete amato Downton Abbey o Gosford Park, o Belgravia come la sottoscritta potete provare anche la novità made in USA. Anche se i personaggi non mangiano biscuits ma cookies e fanno le passeggiate negli yards anziché nei garden, e questo mi spiace alquanto.

Drama

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Don’t look up: satira divisiva

Su Netflix trovate la tragicommedia Don’t look up, diretta da Adam McKay e che vanta un cast pluripremiato con nomi come Jennifer Lawrence, Leonardo Di Caprio, Meryl Streep, Jonah Hill, Cate Blanchett, Mark Rylance e Timothee Chalamet. Tratta temi importanti, mascherando la tragicità delle situazioni con toni da commedia, mostrando, in modo estremo e fintamente leggero, le brutture della società contemporanea, fatta di like e linguaggi stereotipati.

Cometa Dibiasky

La dottoranda in astronomia Kate Dibiasky fa una scoperta tanto importante quanto catastrofica: una cometa, a cui ha dato il suo nome, nel giro di qualche mese si abbatterà sulla Terra, causando tsunami altissimi che porteranno all’estinzione di tutte le specie. Lei e il suo professore, Randall Mindy, allertano la Presidente degli Stati Uniti per cercare una soluzione e diffondere la notizia, ma, non ascoltati, cercano di sensibilizzare l’opinione pubblica attraverso i media, suscitando le più svariate ed estreme reazioni.

Temi e citazioni

Prendete Melancholia, Dottor Stranamore, Armageddon, Idiocracy e per chi l’ha visto You, me and the Apocalypse, mischiateli per bene e avrete la base per Don’t look up, aggiungete argomenti come tecnologia, social network, cyberbullismo, il cambiamento climatico e altri di attualità e completerete il film.

Quindi, due scienziati nelle loro ricerche fanno una scoperta importantissima e catastrofica, calcolano e ricalcolano i dati nella speranza di essersi sbagliati ma ottenendo sempre lo stesso risultato, per cui si rendono conto di dover avvisare il mondo e intraprendono un viaggio sia fisico che interiore (come vi sentireste se doveste dare una notizia del genere a livello globale?). La satira feroce colpisce tutte le classi di potere: la politica, rappresentata come vanesia, autocelebrativa e più preoccupata del voto dei cittadini che della propria vita; i mass media e i social, che basano tutto sulle apparenze piuttosto che sui contenuti, che adottano una comunicazione superficiale, evitano tutto quello che potrebbe intristire o preoccupare e che (cyber)bullizzano chi osa discostarsi dalle loro convenzioni; i multimilionari della tecnologia, che parlano di solidarietà ma che in realtà non provano un minimo di empatia, sono profondamente individualisti e ossessionati dall’incrementare il loro patrimonio. Inoltre, mostra come, spesso, i posti di potere sono occupati da persone che non hanno alcun titolo e abusano della loro autorità solo per rendere chiara la gerarchia.

Al centro della narrazione, c’è la frustrazione della difficoltà di comunicare e di avere rapporti profondi. Sono denunciati nel film l’appiattimento e la ricerca estrema di leggerezza, perché verità e notizie spiacevoli creano panico, non si vogliono ascoltare e sono messe a tacere come allarmiste. E se ci pensiamo, di “Cassandra” ce ne sono in abbondanza nel nostro presente e sono criticate perché troppo serie, poco sorridenti, noiose…

Adam McKay

Il montaggio del film è ben cadenzato, il regista ci fa percepire l’ansia dei personaggi attraverso veloci primissimi piani e dialoghi molto ritmati, con battute che prendono in controtempo ed enfatizzano il distacco tra i protagonisti e il resto del mondo. Adam McKay, già Oscar per la sceneggiatura per La grande scommessa, nei suoi film “seri” scende molto nei dettagli tecnici, tanto che, se non si è ferrati nell’argomento, si rischia di non seguire bene il filo (per lo meno, io ho dovuto guardare due volte La grande scommessa prima di iniziare a capirne un 10%, e per Vice si può fare un discorso simile), ma Don’t look up è più concentrato a schiaffarti in faccia le deformità della società in cui sei integrato, per cui è decisamente più comprensibile.

Concludiamo…

Sono venuta a conoscenza del film qualche settimana fa, semplicemente grazie a un fotogramma che ritraeva Jennifer Lawrence, Leonardo Di Caprio e Timothee Chalamet, e mi è sembrata la giusta motivazione per guardarlo. Ho avuto la conferma di aver fatto un’ottima scelta. Le loro interpretazioni sono state come sempre all’altezza e i personaggi credibili, anche Chalamet, in un ruolo piccolo, ha valorizzato la sua parte. Meryl Streep come al solito camaleontica, una Presidente degli Usa che incarna perfettamente la progressista dei salotti bene, Jonah Hill riesce sempre nella parte dell’arrogante infantile e stupido, stavolta con complessi di Edipo; Mark Rylance gigantesco, un Elon Musk disponibile pubblicamente e silenzioso prevaricatore, e Cate Blanchett si cala bene nelle vesti fastidiosissime della giornalista senza scrupoli e morale. C’è anche Ariana Grande, perfetta nella parte della starlet del momento.

La citazione del comico Jack Handey, messa prima dei titoli di testa: “Voglio morire serenamente nel sonno, come mio nonno, non urlando di terrore come i suoi passeggeri”, suggerisce sia il tono della pellicola che il tema. So che è un film molto divisivo, ho letto i pareri più discordanti, ma lo consiglio caldamente, sperando di avervi dato la chiave giusta per farvelo apprezzare.

The White Lotus

Prodotta da HBO, in Italia su Sky Atlantic, The White Lotus è una miniserie in 6 episodi della durata ciascuno di un’ora circa, scritta e diretta da Mike White. Il nome potrebbe non dirvi nulla ma magari qualcuno ha visto Enlightened, La nuova me in italiano, di cui è ideatore, sceneggiatore e attore o School of Rock di cui è sia sceneggiatore che attore (il coinquilino insicuro di Jack Black). Comunque, nello scoprire che Sky avrebbe trasmesso un’altra serie sua mi sono sfregata le mani, perché per me Mike White è spiazzante, e mi piace sentirmi spiazzata, ed è ironico e un prodotto ironico guadagna 1000 punti.

COSA ACCADE NELLA SERIE?

Nell’hotel di lusso alle Hawaii The White Lotus c’è stato un morto. Sarà la mogliettina fresca di nozze? O un altro dei turisti? O ancora uno dello staff dell’albergo? Probabilmente lo scopriremo solo nel finale di stagione.

Per ora conosciamo i personaggi: la coppia fresca di nozze, lui ricco e viziato rampollo che ottiene sempre quello che vuole e lei giornalista insicura alle prime armi; la famiglia alto borghese con madre, padre, due figli adolescenti e l’amica del cuore della maggiore; l’emotiva riccona in lutto che deve disperdere le ceneri della madre in mare. Poi il direttore dell’hotel, un uomo che cerca disperatamente di tenere tutto sotto controllo.

MOTIVI PER GUARDARE THE WHITE LOTUS

A tenere incollati allo schermo sia il pretesto di scoprire chi sia morto e per quale motivo – quindi le varie ipotesi e il totomorto – ma anche vedere il modo in cui le ipocrisie e le manie dei borghesi siano causa della loro stessa rovina. Il pubblico punta il dito verso il re nudo mentre il re continua ad andare in giro convinto di essere elegante e raffinato. C’è tutto l’ambiente dei salotti bene, quelli che “la beneficienza per alleviare i sensi di colpa” e quelli che “ormai gli uomini bianchi etero sono discriminati”. L’umanità ha fatto il giro a 360 gradi ed è tornata al punto di partenza.

Nella cornice delle Hawaii, Mike White sceglie una fotografia con calore molto alto, tanto che alle volte il bianco diventa rosso, come il sangue (per chi è come me: non c’è per niente sangue per ora, potete guardarlo tranquillamente), e sceglie musiche molto ritmate che fanno a volte da metronomo delle azioni che si svolgono, altre da sottofondo ai dialoghi cadenzati.

Per me è davvero una scoperta, ho trovato intrigo, satira, umorismo e situazioni imbarazzanti, molto imbarazzanti e molte situazioni. Un accenno al cast. Ci sono: Steve Zahn, Alexandra Daddario, Connie Britton che pensavo avesse fatto roba tipo Grey’s Anatomy ma no, ha solo i capelli alla Grey’s anatomy, il tizio che esce con Zöe Kravitz in High Fidelity, la ragazzina della seconda stagione di The Handmaid’s Tale e poi Jennifer qualcosa (Coolidge), meglio conosciuta come la mamma di Stifler.

Queste argomentazioni scommetto che vi hanno convinto a guardarla. Non ve la consiglio se non amate la satira, se umorismo per voi è solo ridere di pancia e se siete bigotti.

I Hate Suzie

I hate Suzie è il nuovo dramedy Sky Original d’oltremanica che ha debuttato in Italia sabato 3 luglio con i primi due episodi su un totale di 8 su Sky Atlantic. Durano mezz’ora l’uno. Qualche info aggiuntiva: è ideata da Lucy Prebble e Billie Piper. La prima è una delle sceneggiatrici di Succession, una delle serie TV meglio curate degli ultimi anni, che racconta sgambetti e coalizzazioni all’interno della famiglia di un magnate della comunicazione. Parlerei per ore di questa serie e questo dovrebbe darvi qualche indizio su quanto potessi essere interessata a vedere altri prodotti scritti da una delle autrici. La seconda è Billie Piper, anche protagonista della serie. È diventata famosa come cantante nella sua adolescenza – sfido chiunque a ricordarsi di lei tra le tante Britney Spears, Christina Aguilera, Mandy Moore (che ora adorate tutti per This is Us) – poi è stata protagonista della serie Diario di una squillo per bene e ha avuto un ruolo importante in Doctor Who. L’attore che interpreta il marito lo avete già visto in Lovesick e/o in The Crown.

CHI È SUZIE?

Dopo questa introduzione doverosa, passiamo alla serie. Chi è Suzie? Suzie è una star delle serie tv, con un passato come cantante e attrice di soap opera, diventata famosa quando era ancora teenager (notate analogie?) e che ora ha una famiglia perfetta: una casa grande in provincia, lontano da tutto il casino della città, con un marito che la ama molto e un figlio sordomuto, conosce per nome i vicini ed è in confidenza col postino. Con queste premesse, Mulino Bianco dovrebbe solo prendere spunto.

La prima inquadratura in cui vediamo Suzie da adulta ci dà qualche indicazione sul tipo di persona che è diventata: sigaretta in una mano, nell’altra il cellulare, appoggiato all’orecchio con telefonata in corso e, come prima battuta pronunciata, un “F*ck” incredulo per aver appena appreso la notizia che le potrebbe far svoltare la carriera, cioè la proposta per un ruolo da principessa Disney. Questa euforia dura meno del tempo di un brindisi perché presto si imbatte in un articolo di gossip che rivela l’hackeraggio del suo smartphone e il furto di foto sessuali compromettenti. Viviamo con lei lo shock della situazione, e i primi piani con sfondo sfumato ci fanno sentire il disagio claustrofobico di chi vorrebbe scappare ma è intrappolato in una scatoletta. Questa valanga emozionale è resa ancora più tragicomica dalla presenza di tutta la troupe di una rivista che deve fare un servizio fotografico su di lei in versione Crudelia DeMon: cosa che stride con il ruolo da principessa Disney e ci suggerisce che in realtà Suzie è più un’anti-eroina che una beniamina.

TEMA

La serie tratta in modo ironico un tema pesante come quello dell’invasione della privacy che causa umiliazione pubblica da parte di ignoti. Conosciamo alcune star di cui sono stati diffusi video e immagini privati, spogliandole (letteralmente) di quel briciolo di intimità che erano riuscite a preservare. Per Suzie è inevitabile il crollo psicologico, che la porta a fare una camminata della vergogna durante la quale pronuncia un monologo, stile Monty Brogan aka Edward Norton ne La 25a ora o anche Maga Magò de La spada nella roccia, in cui si svela completamente, dichiarando di odiare tutto quello che la circonda.

Il pilota si conclude con tante domande aperte: come affronterà la situazione pubblicamente? E quali saranno le conseguenze sulla sua vita privata? Rimane la curiosità di guardare il secondo episodio (già disponibile, per altro). Ogni episodio ha come titolo una fase di transizione nell’affrontare la situazione, quindi possiamo immaginarci quale sarà lo stato d’animo in anticipo. Ve la suggerisco se vi è piaciuto Enlightened (in italiano La Nuova Me, brrrr) o se vi piacciono le dramedy con personaggi che si scavano la fossa da soli e provano un piacere masochistico nello scavare ancora più a fondo.

Comedy, Drama

Omicidio a Easttown (Mare of Easttown)

HBO + Kate Winslet = mossa vincente.

È uscita su Sky la nuova miniserie in 7 episodi della durata di un’ora, che racconta dell’omicidio che ha sconvoto la tranquilla cittadina di Easttown, fino a quel momento poco abituata a confrontarsi con scandali del genere. È un paese in cui non succede niente di rilevante, se non fosse per la sparizione, durante l’anno precedente, di una ragazza del posto.

Nel cast troviamo volti noti e molto interessanti: Kate Winslet che per me è un punto di riferimento sia umano che artistico, un sempre sul pezzo Guy Pierce, Evan Peters che dimostra ancora una volta di essere versatile, e ancora altri volti più o meno noti, come Julianne Nichols che io conobbi in Allie McBeal con un personaggio molto sopra le righe e che ha fatto capolino in tantissime serie importanti fino a diventare quasi la co-protagonista di questa serie. L’autore è Brad Inglesby, devo ammettere che non lo conosco, ho solo letto che ha scritto Tornare a Vincere e Il Fuoco della Vendetta: credo lo ricorderemo ora che ha scritto Omicidio a Easttown.

Mare of Easttown

Marianne, Mare, è una detective, vive con la figlia poco più che adolescente e il nipote (è una nonna molto giovane) e con una madre che mal sopporta. Il suo carattere spigoloso e l’atteggiamento aggressivo rendono difficile per gli altri starle vicini: tende ad allontanare tutti, tranne il nipote Drew, l’unico che ha accesso alla sua dolcezza. L’ex marito vive di fronte a lei e si sta per risposare con una donna che è l’opposto di Mare, tanto per esasperare un po’ la situazione. Ogni giornata di Mare si apre con il cellulare che squilla, e dall’altro capo un cittadino x si lamenta delle stesse cose banali ogni giorno.

Erin è un’adolescente tra i 16 e i 18 anni, madre di un bambino di un anno, DJ, che ama infinitamente, e gli autori ci tengono a esplicitarlo subito, facendole pronunciare un monologo in cui dichiara quanto sia felice della sua maternità, anche se la nascita del bambino è stata causa della separazione col padre. Lui, il padre, è uno a modino, di quelli che stanno a guardare mentre tu vieni pestata a sangue dal primo che capita.

Il primo episodio, quindi, introduce i due personaggi focali della serie, e lo fa mostrando le loro vite parallele fino al momento in cui la ragazza viene uccisa (non è uno spoiler, se non avete capito dal primo minuto che è destinata alla morte mi sa che dovete fare un po’ di ripasso di TV).

Regia, temi e altro

La regia ci porta in una cittadina degli Stati Uniti fredda, sia a livello di temperatura che di colori, con tetti spioventi di case singole e finestre che si affacciano direttamente nelle stanze dei vicini. È una città con colori ovattati, e il tema musicale accompagna bene la malinconia del posto e della vita.

Uno degli elementi più avvincenti è quello investigativo: i segreti custoditi dai personaggi sono decisamente succulenti così come i colpi di scena, che però per fortuna non sono tanti da sentirsi presi in giro dagli sceneggiatori. Non so voi, ma io mi infastidisco quando, in una serie, dietro ogni angolo c’è un elemento di sorpresa. Bisogna saper dosare anche quello, ma spesso gli autori si lasciano guidare dalla voglia di sensazionalismo. Invece è piacevole assistere alla naturalezza con cui si svolgono i fatti, si scoprono gli indizi e si accompagnano gli investigatori nella ricerca dell’assassino. La tensione è una presenza costante nella serie, soprattutto negli episodi centrali, cosa che per me ha la stessa attrattiva delle tasche nei vestiti.

Ma forse in questa serie l’omicidio è solo un pretesto per approfondire temi psicologici e traumi: al netto di qualche personaggio secondario sopra le righe, quelli principali sono concreti, ci troviamo davanti a tante sfaccettature della loro personalità e spesso entriamo a contatto con le loro vulnerabilità. Ritornando su Mare, in apparenza arida, cinica, è facile intuire che ci sia una ferita nel suo passato; infatti a un certo punto della storia scopriamo di cosa si tratta ma tutto avviene senza affrettare le cose, senza bisogno di svelare tutto con spiegoni; gli autori rilasciano una goccia ogni tanto – lo stesso avviene con gli altri personaggi – ed è soggetta a un cambiamento. Ovviamente non svelerò se si tratta di evoluzione o involuzione, vi lascio il gusto della scoperta.

I temi trattati sono quelli intimi e universali dell’elaborazione del lutto, il perdonarsi per i propri errori, che accomunano la gran parte dei personaggi e ricorrono in ogni episodio della serie, lasciando intendere che il messaggio sia proprio quello di lasciare andare e sentirsi in pace con se stessi.

Per chiudere…

Penso sia emerso dalle mie parole quanto questa serie mi abbia colpito in positivo, nonostante una piccola perplessità su una parte finale. Prima che la iniziassi, mi è stata paragonata a Broadchurch (una delle mie serie TV preferite in assoluto): qualche elemento simile è presente, dal punto di vista dell’ambientazione, entrambi sono in paesini di provincia e entrambi si concentrano sia sull’omicidio che sulla psicologia dei personaggi. Però gli inglesi hanno un modo di narrare le cose che ti svuota completamente e le reazioni più contenute da parte dei personaggi aumentano questa sensazione, cosa che non succede con le serie d’oltreoceano, ma comunque questo è un ottimo prodotto e mi sento di consigliarvelo.

Voglio dire ancora una volta quanto Kate Winslet sia favolosa come attrice che come persona. Per quanti di voi non lo sappiano, ha impedito alla produzione di fare editing sul suo corpo per toglierle rughe e pancia, mettendo un mattoncino nel muro dell’accettazione di se stessi e soprattutto sentirsi bene con il proprio corpo.

Crime, Drama

THE WIRE

Parlare di una serie come The Wire mi fa sentire piccola piccola e mi mette in soggezione, perché richiede di sviscerare talmente tanti argomenti e ha una tale complessità che si teme di tralasciare qualcosa di importante o di trattare con superficialità i vari punti. Non escludo che sarà così, ma mi impegnerò per suggerirla nel modo più sincero possibile.

The Wire è una delle prime serie TV per come le concepiamo ora, insieme a I Soprano e qualche altra che dovrò sicuramente recuperare. Uno dei primi prodotti grazie ai quali HBO ha innalzato il livello della fiction, insomma. L’autore è David Simon, già scrittore e giornalista del Baltimore Sun, e la serie è iniziata nel 2002 e finita nel 2006. 5 stagioni, tra i 10 e i 13 episodi l’una della durata di 50 minuti. Sono trascorsi 20 anni e, anche se le tecnologie sono visibilmente superate, è rimasta attualissima per tutto ciò che racconta, per come il lato umano è sondato e per le dinamiche di potere che si creano. Con il termine “wire” (microfono) si intende l’attività di intercettazione attraverso microfoni, microspie o cimici usata dalla polizia per sorvegliare i sospettati.

UN PO’ DI CORNICE

Fatta questa doverosa premessa, passiamo alla trama: protagonista della serie è Baltimora e, naturalmente, i suoi abitanti. A Baltimora i tossicodipendenti sono tantissimi, questo favorisce la crescita e l’arricchimento degli spacciatori che si dividono la città in gang rivali; la popolazione è per la maggioranza nera e povera e politicamente è storicamente democratica. In ogni stagione ci viene presentato un ambiente della società: da subito conosciamo la polizia e le bande di spacciatori, poi entriamo in contatto con i sindacati e il contrabbando dei mafiosi greci, quindi il mondo della politica, quello della scuola e per ultimo quello del giornalismo. In ogni luogo sono raccontati sia i personaggi “positivi”, con aspirazioni alte, altruisti e con una visione più aperta al sociale, e altri che approfittano del loro potere per scopi personali o prevaricare sugli altri.

CORALITÀ E PERSONAGGI

Sono tanti i personaggi di cui scopriamo il background, che impariamo a conoscere e ogni dialogo, ogni situazione, si accerta che possiamo aggiungere un tassello per arrivare a completare il ritratto. E la coralità della narrazione è uno tra i tantissimi elementi che contribuiscono alla perfezione della serie. I personaggi per i quali provare empatia sono tanti, così come quelli per i quali si prova odio. Le combinazioni dei profili hanno talmente tante sfumature tra la legalità, criminalità, altruismo o ricerca della verità a tutti i costi e da subito ho pensato di fare un diagramma cartesiano con ascisse “codice vs anarchia” e ordinate “buono vs cattivo” – peraltro ho visto che in rete è pieno di schemi simili con le polarizzazioni di Dungeons & Dragons “legale vs caotico”.  I personaggi sono costantemente messi davanti a delle scelte, che spesso rispondono al dilemma “etica vs legge” (a me è venuta in mente la tragedia greca Antigone), e quelle scelte condizionano in maniera evidente la loro crescita e il loro futuro. Ma è fondamentale sottolineare che lo spettatore stesso si trova a rispondere alla stessa domanda, a fare la stessa scelta anche nel suo quotidiano.

Come dicevo, i personaggi sono tantissimi, ma mi voglio soffermare su quelli che sono emblematici per il diagramma che ho messo in basso: McNulty è il primo protagonista, svogliato, deluso, costantemente ubriaco, donnaiolo, a livello professionale persegue senza sosta quelli che sa essere i criminali e per arrivare a loro usa qualsiasi mezzo. Daniels, tenente: per lui la legge è sopra tutto e per questo si scontra con McNulty e chi cerca scorciatoie per arrivare agli obiettivi. Stringer Bell è il primo vero “cattivo” che conosciamo: è il braccio destro del capo ma è molto più in gamba di lui, molto più organizzato e calcolatore. Omar, infine, è il più figo, l’anarchico per eccellenza perché è fuori da ogni codice se non il suo: temuto e odiato da tutti è l’unico che può permettersi una colonna sonora personalizzata, il suo arrivo è infatti preceduto dal suo fischiettare “A hunting we will go” ed è riconoscibile da lontano per il trench lungo, il fucile a pompa a tracolla e la cicatrice che gli solca la faccia. In più è uno dei pochi “bad boys” televisivi gay e questo aspetto lo rende unico, lontano dagli stereotipi.

TEMI PRINCIPALI TRATTATI

Il potere è senza dubbio il tema più sviscerato in tutte le sue forme, e la sua ricerca avviene in diversi modi: chi cerca di arrivarci tramite la violenza, chi tramite sotterfugi e chi invece onestamente, mettendosi in gioco in modo pulito, ma che però dovrà rinunciarci o scendere a compromessi. E naturalmente anche le gerarchie sono ben evidenti in ogni ambiente: le gang hanno un boss che sotto ha dei tenenti e poi soldati che popolano gli angoli delle strade. In rete sono anche presenti organigrammi delle varie organizzazioni perché, ripeto, The Wire è complessa e offre moltissimi spunti da approfondire.

La serie è cruda, spoglia ed è pervasa da pessimismo nei confronti dell’avvenire, e le parole messe in bocca a Prez: “Nessuno vince. Una parte perde più lentamente” esplicitano il concetto. I cambiamenti in positivo si trasformano in sconfitte e il futuro non è altro che un giro di ruota.

FUN FACTS

Voglio chiudere con qualche curiosità. Alcune delle persone a cui Simon si è ispirato per i personaggi, sono poi entrati nel cast, altre sono state realmente criminali, per esempio Snoop. La ragazza spacciava dall’età di 12 anni e poi fu scoperta dall’attore che ha interpretato Omar e invitata da lui a fare il provino. Stephen King ha dichiarato che il personaggio di Snoop è il villain femminile più cattivo della tv. In una scena della prima stagione, McNulty e Bunk indagano sulla scena dell’omicidio e dicono solo “cazzo” (fuck, per i puristi) per quasi 5 minuti. L’ultima è tristissima: a causa degli ascolti bassi, HBO era tentata di chiudere la serie alla fine di ogni stagione.

Crime, Drama, Vintage

FEUD

Ryan Murphy è un po’ il re Mida della TV. La sua popolarità è esplosa con Glee, si è consacrata con American Horror Story ma in tempi non sospetti è stato ideatore di Popular (che non tutti ricordano: è un po’ la sorella sfigata delle varie teen drama ma ironica) e Nip/Tuck. Adesso è sulla cresta dell’onda grazie ad American Crime Story, Pose, Hollywood, The Politician e l’ultimissimo film The Prom. Elementi comuni a tutte queste serie sono, oltre all’inclusione, tema caro all’autore, l’attenzione al dettaglio soprattutto estetico, l’uso di colori forti con contrasti vivaci, la sfarzosa eleganza e dialoghi brillanti.

INTRODUCIAMO FEUD

Parliamo di Feud: è una serie antologica del 2017, significa che in ogni stagione avrebbe trattato una storia completamente diversa, ma si è interrotta dopo la prima perché la seconda, che avrebbe avuto come tema centrarle il rapporto tra Charles e Diana, è stata stroncata sul nascere. Sicuramente The Queen ha preferito approvare la più sobria (nonché capolavoro) The Crown, magari perché immaginava che non avrebbe avuto il controllo completo della situazione con Ryan Murphy. L’intenzione della serie era, come dice il nome, di raccontare faide famose tra personaggi conosciuti e la prima (e unica) stagione è incentrata sul rapporto conflittuale tra due attrici incredibili degli anni 50/60: Joan Crawford e Bette Davis. Una rivalità derivata dalla gelosia tra le due, perché la prima era l’icona di bellezza del periodo, corteggiata da tutti, mentre la seconda rappresentava il talento e col suo carisma catalizzava l’attenzione delle persone. Due personalità molto forti, che ebbero molteplici scontri sia dal punto di vista privato che professionale. Il gossip è ampiamente appagato da questa serie di otto episodi della durata di circa 50 minuti, ma è anche interessante scoprire il dietro le quinte di due film cult come Che fine ha fatto Baby Jane? e Piano Piano Dolce Carlotta e soprattutto capire come funzionava il mondo dello showbiz Hollywoodiano in quel periodo. La storia è in parte fiction e in parte sotto forma di finta intervista ad alcuni personaggi del mondo dello spettacolo.

JOAN E BETTE

Il ritratto di Joan Crawford è quello di una prima donna capricciosa, invidiosa del successo e della bellezza delle nuove dive mentre lei è ormai quasi dimenticata, accudita in tutto e per tutto dalla sua governante, che lei chiama Mamacita, in una casa i cui mobili sono completamente incellofanati per preservare, almeno a loro, la bellezza originale. Vive nel passato, nel ricordo di quando era lei la star in cima alle classifiche, con l’Oscar vinto come miglior attrice e stuoli di corteggiatori, e vorrebbe solo ritornare a quei fasti. Nell’episodio pilota la vediamo rovistare tra copioni e libri fino a trovare la storia che potrebbe regalarle una nuova candidatura, la propone fieramente a Robert Aldrich, che in quel periodo girava pellicole di serie B, e insieme riescono a coinvolgere Bette Davis per interpretare il ruolo che dà il titolo al film: Che fine ha fatto Baby Jane?. Troviamo Bette Davis a Broadway, a sua volta dimenticata da cinema per via di un carattere deciso e forte che non le ha agevolato il rapporto con registi e produttori, impauriti e infastiditi da una donna così determinata, e quindi per tirare avanti è costretta a recitare parti secondarie a teatro. Nonostante il mondo del cinema sia per lei un’attrattiva fortissima, non accetta subito la proposta di Aldrich perché non ha mai perdonato a Crawford di averle rubato un amante e un ruolo. Entrambe le donne hanno divorziato di recente, hanno un rapporto conflittuale con le figlie e sono fondamentalmente sole. La serie poggia anche sul tema della solitudine e Ryan Murphy lo mette in evidenza attraverso la divisione in due dello schermo in cui mostra la condizione delle due attrici.

Per Aldrich, portare avanti il film non fu facile per via delle liti tra le due che arrivavano a farsi dispetti anche durante le riprese, ma il risultato è il capolavoro che conosciamo (e chi non lo conosce rimedi subito).

CAST

Jessica Lange, feticcio di Ryan Murphy, interpreta Joan, mentre Susan Sarandon è Bette Davis. Due attrici premi Oscar che interpretano due attrici vincitrici di Oscar. A loro si aggiungono Alfred Molina che veste i panni di Robert Aldrich, Stanley Tucci che è il produttore Jack Warner (sì, uno dei fratelli), Catherine Zeta Jones interpreta Olivia de Havilland, migliore amica di Bette Davis e la gigantesca Kathy Bates nel ruolo di Joan Blondell.

PER CONCLUDERE

La serie è disponibile sulla piattaforma Disney+. Ve la consiglio se, come me, siete interessati a conoscere (o approfondire la conoscenza di) due enormi attrici hollywoodiane e se vi piacciono il ritmo e i colori di Ryan Murphy, che io personalmente adoro.

Barry

Sta per approdare su Sky Barry, la serie HBO ideata da Alec Berg (già sceneggiatore di Silicon Valley, Seinfield e Curb your Enthusiasm) e Bill Hader che è anche protagonista. Al momento sono uscite due stagioni ma è prevista anche una terza. Ogni stagione conta 8 episodi, ciascuno da 30 minuti. Non sarà un problema per chi è abituato al binge watching, sia perché è breve ma anche perché è scorrevole.

Chi è Barry? È un sicario. Un tiratore perfetto, non sbaglia un colpo e non prova empatia per le sue vittime. Il lavoro lo costringe a una vita solitaria, non ha famiglia, amici e l’unico contatto che ha è il suo mentore che gli procura gli ingaggi. La svolta arriva però quando è assoldato da un malavitoso ceceno che gli chiede di far fuori l’amante della moglie. Amante che è aspirante attore e accade che, durante il pedinamento, Barry si ritrova per un malinteso a far un provino per la scuola teatrale a cui è iscritta la sua vittima, scoprendo così che il mondo della recitazione gli garba e chissà, forse può trovare l’amore.

Affronta tematiche importanti come lo stress post traumatico e la violenza di genere senza però ridicolizzarli o minimizzarli, aggiungendo invece nuovi spunti di riflessione agli argomenti e rimarcando bene la parte drama e dark. È un mix di generi fluido, spazia dalla pura comedy (il personaggio del ceceno è esilarante) all’azione e al drama senza mostrare cedimenti. La curiosità è data dall’assurdità del conciliare due vite così agli antipodi, come quella dell’arte, che necessita di un’empatia, di un’immedesimazione completa nei panni di un altro, a quella del killer spietato che invece non può provare emozioni nei confronti di nessuno. Ovviamente è ancora più gustoso il fatto che sia sul filo del rasoio, che possa essere scoperto come assassino o dalla polizia o dalle sue nuove amicizie del teatro.

Se ancora non vi basta per iniziare questa serie, aggiungo l’arma segreta: Henry Winkler, Fonzie. Qui nelle vesti dell’insegnante di teatro, nonché mentore positivo di Barry. Un ottimo insegnante ma con difficoltà a trovare ruoli da interpretare.

È una serie di alto livello, ha vinto anche due Emmy. Non che questo sia sinonimo di bontà ma a me piace usarlo a suffragio della qualità. Naturalmente, quando qualcosa che non mi piace vince premi affermo seriamente “ma non è che i premi valgano qualcosa”. Più volte ho pensato potesse essere una versione “opposta” di Breaking Bad, dato che Barry cerca la normalità dopo aver passato la fase “cattiva”. Molto simile nei toni a Better Call Saul. Fatemi sapere.

Comedy

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American Vandal

Inauguro il blog con una delle ultime serie che ho visto. Non è una serie recente ma ha attirato la mia attenzione perché il titolo echeggia alcune più famose come American Horror Story o ancor più American Crime Story ma quel “vandal” mi ha dato l’idea di qualcosa di ironico, come una sorta di parodia. Una piccola specifica: non amo le parodie, mi danno l’impressione di mancanza di originalità ma, per contro, apprezzo l’ironia e volevo capire quale direzione volesse prendere questa serie. Non ho letto molto prima di guardarla: il trailer mi sembrava qualcosa di molto demenziale ma il sapere che era stata candidata a un Emmy ha fatto scattare la scintilla, non tanto per la nomination quanto perché le due cose stonavano nella mia testa.

Presentazione di base: American Vandal è una serie in due stagioni, 2017 e 2018 potete trovarla su Netflix. Durata media di un episodio è circa 40 minuti, ogni stagione è composta da 8 episodi. Genere: mockumentary. È uno dei generi che preferisco per la sua parvenza di oggettività, per il fatto che, per una buona riuscita, i personaggi devono essere ben caratterizzati e richiede una recitazione “naturale” da parte degli attori, che interagiscono con la telecamera come se fosse un personaggio. Alcuni esempi di mockumentary che se non avete visto potete recuperare: Modern FamilyZelig, This is Spinal Tap, Death to 2020, Parks & Recreation, The Blairwitch Project, molti prodotti di Ricky Gervais come Life is too short e Derek (a me manca, purtroppo, ancora The Office) e spesso i miei amati Monty Python si sono serviti del genere per i loro sketch.

Altro elemento che cattura è lo stile investigativo: due studenti di una scuola superiore, membri del giornalino scolastico, risolvono, nelle due stagioni, due casi di atti vandalici ai danni di membri della scuola. Lo spettatore conosce i dettagli dei personaggi e dei fatti insieme ai due giornalisti, con loro fa congetture ed è coinvolto nel ragionamento e nell’indagine: inciampa assieme a loro e entra a conoscenza di indizi sempre insieme a loro. Nella prima stagione i due giornalisti vogliono scoprire la verità in relazione a chi ha disegnato “piselli” sulle auto dei docenti nel parcheggio della scuola e nella seconda, visto il successo della prima che è addirittura finita su Netflix (meta-tv all’ennesima potenza, usata benissimo), sono chiamati da una ragazza di un’altra scuola a indagare su chi sia il “Bandito della Cacca” (Turd Burglar) che perseguita gli studenti. Grazie ai vari personaggi che entrano in contatto coi protagonisti scopriamo diversi punti di vista sugli avvenimenti e sulle persone e scopriamo che anche chi è più amato con la fama di “buono” cela delle falle e segreti scabrosi.

E questo ci consente di passare al terzo elemento, un livello più profondo che lo stile mockumentary riesce a catturare al meglio, forse anche più degli altri generi, è quello sociale: tutte le serie teen ben fatte rivelano i disagi dell’essere adolescenti, raccontano quanto ci si possa sentire soli e la frustrazione della ricerca continua di piacere agli altri. La serie mette in evidenza quanto tutto sia amplificato per quest’ultima generazione a causa dell’avvento dei social, che rende “obbligatorio” il pubblicare, postare, twittare costantemente la propria vita per dimostrare di essere inseriti nel contesto e di essere vivi. L’adolescenza è quella età in cui si è alla disperata ricerca di una propria identità, in cui l’apparenza è tutto ma con problemi e i disagi sono universali che si cerca di celare agli altri sguardi, come il buon Breakfast Club ha tramandato a tante generazioni: “Tutti siamo un po’ strani, solo che qualcuno di noi è più bravo a nasconderlo.”

Se non fosse abbastanza chiaro ho adorato questa serie che consiglio a chi apprezza il genere. Diverte, ha un buon ritmo e riesce bene nel lasciare sospeso lo spettatore al momento giusto con cliffhanger ben pensati e dà ottimi spunti di riflessione.