BORIS 4

In questo post non parlerò di quanto dopo 11 anni in me ci fosse un conflitto incredibile tra l’attesa del Messia e il timore della delusione, come sempre succede quando qualcosa di epico viene ripreso dopo anni. Non parlerò del fatto che Boris è stata una delle cose più belle prodotte dalla TV in assoluto e abbia ben pochi concorrenti in Italia e che ha vivisezionato la TV dell’epoca regalando ai comuni mortali un affresco iperrealistico (a detta degli addetti ai lavori) di una produzione televisiva, ma mi concentrerò sulla nuovissima stagione e capirete se è il caso di guardarla o meno.

UN PO’ DI CAMBIAMENTI NEL CONTESTO

In 11 anni in Italia si sono susseguiti 9 governi e 2 presidenti della Repubblica, e nel mondo 2 papi, la Brexit, diversi attacchi terroristici, tra i quali l’elezione di Trump. I social sono diventati la principale fonte di popolarità. La TV e il modo di fruirne sono completamente cambiati con l’arrivo di svariate piattaforme streaming e il numero delle serie è cresciuto esponenzialmente. I vari competitor devono quindi alzare l’asticella per rimanere nel mercato: più risate, più lacrime, più ammiccamenti e una scrittura sempre più tagliente o proponendo format nuovissimi. Generazioni americane giovani di dirigenti che spostano il capitale in base al dinamismo e capacità di adattamento della produzione. La troupe di Boris ha perso due figure importantissime: Roberta Fiorentini, Itala l’assistente di produzione, e Mattia Torre, indimenticato sceneggiatore della serie, entrambi nel 2019. La quarta stagione di Boris (su Disney+ dal 26 ottobre) non poteva non tenere in considerazione tutte queste variabili. La domanda è una: Vendruscolo e Ciarrapico riusciranno a portare avanti a quattro mani un percorso iniziato a sei? L’assenza di Torre si farà sentire? La risposta non è così semplice, quindi racconterò un accenno di trama e le emozioni che mi ha suscitato, sperando di non ricorrere troppo agli SPOILERRRRRR.

ALGORITMI, GHOST, SNIP

Non c’è più la rete a supervisionare il progetto ma “la piattaforma”, che, attraverso un algoritmo (un’entità tra divinità e il direttor lup mannar gran figl di putt), decide ciò che può essere prodotto in base a diversi criteri: devono essere presenti un high concept (universale, di facile identificazione per tutti), la storia teen, il ghost del personaggio – il conflitto – e soprattutto il cast deve essere multietnico, in ottica di inclusione. Questi quattro elementi sono il motore della stagione e i personaggi si trovano a fronteggiare queste novità per restare nel mondo della TV. Il tutto, finanziato dalle due società QQQ (Qualità, qualità, qualità) di Diego con il cugino malavitoso calabrese, e la SNIP (So Not Italian Production) di Stanis e Corinna, che ormai formano una coppia di produttori/attori, sempre vanesi e scemi.

Negli 8 episodi, re-incontriamo tutti quelli che ci avevano fatto innamorare della fuoriserie nelle stagioni precedenti, compresi guest star come Nando Martellone (Massimiliano Bruno), Mariano (sempre sia lodato Guzzanti), Karin (Karin Proia), Cristina (Eugenia Costantini) e suo padre (Andrea Purgatori), Glauco (Giorgio Tirabassi) e troviamo un nuovo personaggio interpretato da Edoardo PESCE (ricordatevelo), Tatti Barletta, che dà un enorme contributo alla narrazione. E tutti i personaggi sono coerenti con i loro stessi del passato, il che rende ancora più esilarante il loro tentativo di inserirsi in un contesto così giovane e nuovo.

Ritorniamo a ciò che è cambiato negli ultimi 11 anni, che è riassunto dalle parole di Biascica “nel nostro mondo è cambiato tutto, dov’è finita la poesia di una volta?”. La qualità sostituisce il metodo “a cazzo di cane”, durante la produzione è sempre presente una ragazza che filma per il backstage, ovviamente non pagata, e non sono più tollerati gli episodi di nonnismo o sessismo, in virtù del politicamente corretto. Anche i tormentoni sono rinnovati, confermando l’originalità del prodotto.

RISATE E PIANTINI

Durante la sigla iniziale, anche questa nuova, fa un certo effetto la mancanza del nome di Mattia Torre tra gli sceneggiatori, anche se in tutti gli episodi avvertiamo la sua presenza, tra le risate e i piantini. Soprattutto risate, tantissime. La serie ha saputo reinventarsi e adattarsi ai nuovi scenari, ironizzando sulle abitudini degli italiani e trovando l’high concept che fa immedesimare anche chi non ha mai messo piede in una produzione TV. Mi rimane una domanda, che al momento non ha una risposta: a quando la quinta stagione?

Don’t look up: satira divisiva

Su Netflix trovate la tragicommedia Don’t look up, diretta da Adam McKay e che vanta un cast pluripremiato con nomi come Jennifer Lawrence, Leonardo Di Caprio, Meryl Streep, Jonah Hill, Cate Blanchett, Mark Rylance e Timothee Chalamet. Tratta temi importanti, mascherando la tragicità delle situazioni con toni da commedia, mostrando, in modo estremo e fintamente leggero, le brutture della società contemporanea, fatta di like e linguaggi stereotipati.

Cometa Dibiasky

La dottoranda in astronomia Kate Dibiasky fa una scoperta tanto importante quanto catastrofica: una cometa, a cui ha dato il suo nome, nel giro di qualche mese si abbatterà sulla Terra, causando tsunami altissimi che porteranno all’estinzione di tutte le specie. Lei e il suo professore, Randall Mindy, allertano la Presidente degli Stati Uniti per cercare una soluzione e diffondere la notizia, ma, non ascoltati, cercano di sensibilizzare l’opinione pubblica attraverso i media, suscitando le più svariate ed estreme reazioni.

Temi e citazioni

Prendete Melancholia, Dottor Stranamore, Armageddon, Idiocracy e per chi l’ha visto You, me and the Apocalypse, mischiateli per bene e avrete la base per Don’t look up, aggiungete argomenti come tecnologia, social network, cyberbullismo, il cambiamento climatico e altri di attualità e completerete il film.

Quindi, due scienziati nelle loro ricerche fanno una scoperta importantissima e catastrofica, calcolano e ricalcolano i dati nella speranza di essersi sbagliati ma ottenendo sempre lo stesso risultato, per cui si rendono conto di dover avvisare il mondo e intraprendono un viaggio sia fisico che interiore (come vi sentireste se doveste dare una notizia del genere a livello globale?). La satira feroce colpisce tutte le classi di potere: la politica, rappresentata come vanesia, autocelebrativa e più preoccupata del voto dei cittadini che della propria vita; i mass media e i social, che basano tutto sulle apparenze piuttosto che sui contenuti, che adottano una comunicazione superficiale, evitano tutto quello che potrebbe intristire o preoccupare e che (cyber)bullizzano chi osa discostarsi dalle loro convenzioni; i multimilionari della tecnologia, che parlano di solidarietà ma che in realtà non provano un minimo di empatia, sono profondamente individualisti e ossessionati dall’incrementare il loro patrimonio. Inoltre, mostra come, spesso, i posti di potere sono occupati da persone che non hanno alcun titolo e abusano della loro autorità solo per rendere chiara la gerarchia.

Al centro della narrazione, c’è la frustrazione della difficoltà di comunicare e di avere rapporti profondi. Sono denunciati nel film l’appiattimento e la ricerca estrema di leggerezza, perché verità e notizie spiacevoli creano panico, non si vogliono ascoltare e sono messe a tacere come allarmiste. E se ci pensiamo, di “Cassandra” ce ne sono in abbondanza nel nostro presente e sono criticate perché troppo serie, poco sorridenti, noiose…

Adam McKay

Il montaggio del film è ben cadenzato, il regista ci fa percepire l’ansia dei personaggi attraverso veloci primissimi piani e dialoghi molto ritmati, con battute che prendono in controtempo ed enfatizzano il distacco tra i protagonisti e il resto del mondo. Adam McKay, già Oscar per la sceneggiatura per La grande scommessa, nei suoi film “seri” scende molto nei dettagli tecnici, tanto che, se non si è ferrati nell’argomento, si rischia di non seguire bene il filo (per lo meno, io ho dovuto guardare due volte La grande scommessa prima di iniziare a capirne un 10%, e per Vice si può fare un discorso simile), ma Don’t look up è più concentrato a schiaffarti in faccia le deformità della società in cui sei integrato, per cui è decisamente più comprensibile.

Concludiamo…

Sono venuta a conoscenza del film qualche settimana fa, semplicemente grazie a un fotogramma che ritraeva Jennifer Lawrence, Leonardo Di Caprio e Timothee Chalamet, e mi è sembrata la giusta motivazione per guardarlo. Ho avuto la conferma di aver fatto un’ottima scelta. Le loro interpretazioni sono state come sempre all’altezza e i personaggi credibili, anche Chalamet, in un ruolo piccolo, ha valorizzato la sua parte. Meryl Streep come al solito camaleontica, una Presidente degli Usa che incarna perfettamente la progressista dei salotti bene, Jonah Hill riesce sempre nella parte dell’arrogante infantile e stupido, stavolta con complessi di Edipo; Mark Rylance gigantesco, un Elon Musk disponibile pubblicamente e silenzioso prevaricatore, e Cate Blanchett si cala bene nelle vesti fastidiosissime della giornalista senza scrupoli e morale. C’è anche Ariana Grande, perfetta nella parte della starlet del momento.

La citazione del comico Jack Handey, messa prima dei titoli di testa: “Voglio morire serenamente nel sonno, come mio nonno, non urlando di terrore come i suoi passeggeri”, suggerisce sia il tono della pellicola che il tema. So che è un film molto divisivo, ho letto i pareri più discordanti, ma lo consiglio caldamente, sperando di avervi dato la chiave giusta per farvelo apprezzare.

The White Lotus

Prodotta da HBO, in Italia su Sky Atlantic, The White Lotus è una miniserie in 6 episodi della durata ciascuno di un’ora circa, scritta e diretta da Mike White. Il nome potrebbe non dirvi nulla ma magari qualcuno ha visto Enlightened, La nuova me in italiano, di cui è ideatore, sceneggiatore e attore o School of Rock di cui è sia sceneggiatore che attore (il coinquilino insicuro di Jack Black). Comunque, nello scoprire che Sky avrebbe trasmesso un’altra serie sua mi sono sfregata le mani, perché per me Mike White è spiazzante, e mi piace sentirmi spiazzata, ed è ironico e un prodotto ironico guadagna 1000 punti.

COSA ACCADE NELLA SERIE?

Nell’hotel di lusso alle Hawaii The White Lotus c’è stato un morto. Sarà la mogliettina fresca di nozze? O un altro dei turisti? O ancora uno dello staff dell’albergo? Probabilmente lo scopriremo solo nel finale di stagione.

Per ora conosciamo i personaggi: la coppia fresca di nozze, lui ricco e viziato rampollo che ottiene sempre quello che vuole e lei giornalista insicura alle prime armi; la famiglia alto borghese con madre, padre, due figli adolescenti e l’amica del cuore della maggiore; l’emotiva riccona in lutto che deve disperdere le ceneri della madre in mare. Poi il direttore dell’hotel, un uomo che cerca disperatamente di tenere tutto sotto controllo.

MOTIVI PER GUARDARE THE WHITE LOTUS

A tenere incollati allo schermo sia il pretesto di scoprire chi sia morto e per quale motivo – quindi le varie ipotesi e il totomorto – ma anche vedere il modo in cui le ipocrisie e le manie dei borghesi siano causa della loro stessa rovina. Il pubblico punta il dito verso il re nudo mentre il re continua ad andare in giro convinto di essere elegante e raffinato. C’è tutto l’ambiente dei salotti bene, quelli che “la beneficienza per alleviare i sensi di colpa” e quelli che “ormai gli uomini bianchi etero sono discriminati”. L’umanità ha fatto il giro a 360 gradi ed è tornata al punto di partenza.

Nella cornice delle Hawaii, Mike White sceglie una fotografia con calore molto alto, tanto che alle volte il bianco diventa rosso, come il sangue (per chi è come me: non c’è per niente sangue per ora, potete guardarlo tranquillamente), e sceglie musiche molto ritmate che fanno a volte da metronomo delle azioni che si svolgono, altre da sottofondo ai dialoghi cadenzati.

Per me è davvero una scoperta, ho trovato intrigo, satira, umorismo e situazioni imbarazzanti, molto imbarazzanti e molte situazioni. Un accenno al cast. Ci sono: Steve Zahn, Alexandra Daddario, Connie Britton che pensavo avesse fatto roba tipo Grey’s Anatomy ma no, ha solo i capelli alla Grey’s anatomy, il tizio che esce con Zöe Kravitz in High Fidelity, la ragazzina della seconda stagione di The Handmaid’s Tale e poi Jennifer qualcosa (Coolidge), meglio conosciuta come la mamma di Stifler.

Queste argomentazioni scommetto che vi hanno convinto a guardarla. Non ve la consiglio se non amate la satira, se umorismo per voi è solo ridere di pancia e se siete bigotti.

I Hate Suzie

I hate Suzie è il nuovo dramedy Sky Original d’oltremanica che ha debuttato in Italia sabato 3 luglio con i primi due episodi su un totale di 8 su Sky Atlantic. Durano mezz’ora l’uno. Qualche info aggiuntiva: è ideata da Lucy Prebble e Billie Piper. La prima è una delle sceneggiatrici di Succession, una delle serie TV meglio curate degli ultimi anni, che racconta sgambetti e coalizzazioni all’interno della famiglia di un magnate della comunicazione. Parlerei per ore di questa serie e questo dovrebbe darvi qualche indizio su quanto potessi essere interessata a vedere altri prodotti scritti da una delle autrici. La seconda è Billie Piper, anche protagonista della serie. È diventata famosa come cantante nella sua adolescenza – sfido chiunque a ricordarsi di lei tra le tante Britney Spears, Christina Aguilera, Mandy Moore (che ora adorate tutti per This is Us) – poi è stata protagonista della serie Diario di una squillo per bene e ha avuto un ruolo importante in Doctor Who. L’attore che interpreta il marito lo avete già visto in Lovesick e/o in The Crown.

CHI È SUZIE?

Dopo questa introduzione doverosa, passiamo alla serie. Chi è Suzie? Suzie è una star delle serie tv, con un passato come cantante e attrice di soap opera, diventata famosa quando era ancora teenager (notate analogie?) e che ora ha una famiglia perfetta: una casa grande in provincia, lontano da tutto il casino della città, con un marito che la ama molto e un figlio sordomuto, conosce per nome i vicini ed è in confidenza col postino. Con queste premesse, Mulino Bianco dovrebbe solo prendere spunto.

La prima inquadratura in cui vediamo Suzie da adulta ci dà qualche indicazione sul tipo di persona che è diventata: sigaretta in una mano, nell’altra il cellulare, appoggiato all’orecchio con telefonata in corso e, come prima battuta pronunciata, un “F*ck” incredulo per aver appena appreso la notizia che le potrebbe far svoltare la carriera, cioè la proposta per un ruolo da principessa Disney. Questa euforia dura meno del tempo di un brindisi perché presto si imbatte in un articolo di gossip che rivela l’hackeraggio del suo smartphone e il furto di foto sessuali compromettenti. Viviamo con lei lo shock della situazione, e i primi piani con sfondo sfumato ci fanno sentire il disagio claustrofobico di chi vorrebbe scappare ma è intrappolato in una scatoletta. Questa valanga emozionale è resa ancora più tragicomica dalla presenza di tutta la troupe di una rivista che deve fare un servizio fotografico su di lei in versione Crudelia DeMon: cosa che stride con il ruolo da principessa Disney e ci suggerisce che in realtà Suzie è più un’anti-eroina che una beniamina.

TEMA

La serie tratta in modo ironico un tema pesante come quello dell’invasione della privacy che causa umiliazione pubblica da parte di ignoti. Conosciamo alcune star di cui sono stati diffusi video e immagini privati, spogliandole (letteralmente) di quel briciolo di intimità che erano riuscite a preservare. Per Suzie è inevitabile il crollo psicologico, che la porta a fare una camminata della vergogna durante la quale pronuncia un monologo, stile Monty Brogan aka Edward Norton ne La 25a ora o anche Maga Magò de La spada nella roccia, in cui si svela completamente, dichiarando di odiare tutto quello che la circonda.

Il pilota si conclude con tante domande aperte: come affronterà la situazione pubblicamente? E quali saranno le conseguenze sulla sua vita privata? Rimane la curiosità di guardare il secondo episodio (già disponibile, per altro). Ogni episodio ha come titolo una fase di transizione nell’affrontare la situazione, quindi possiamo immaginarci quale sarà lo stato d’animo in anticipo. Ve la suggerisco se vi è piaciuto Enlightened (in italiano La Nuova Me, brrrr) o se vi piacciono le dramedy con personaggi che si scavano la fossa da soli e provano un piacere masochistico nello scavare ancora più a fondo.

Comedy, Drama

Barry

Sta per approdare su Sky Barry, la serie HBO ideata da Alec Berg (già sceneggiatore di Silicon Valley, Seinfield e Curb your Enthusiasm) e Bill Hader che è anche protagonista. Al momento sono uscite due stagioni ma è prevista anche una terza. Ogni stagione conta 8 episodi, ciascuno da 30 minuti. Non sarà un problema per chi è abituato al binge watching, sia perché è breve ma anche perché è scorrevole.

Chi è Barry? È un sicario. Un tiratore perfetto, non sbaglia un colpo e non prova empatia per le sue vittime. Il lavoro lo costringe a una vita solitaria, non ha famiglia, amici e l’unico contatto che ha è il suo mentore che gli procura gli ingaggi. La svolta arriva però quando è assoldato da un malavitoso ceceno che gli chiede di far fuori l’amante della moglie. Amante che è aspirante attore e accade che, durante il pedinamento, Barry si ritrova per un malinteso a far un provino per la scuola teatrale a cui è iscritta la sua vittima, scoprendo così che il mondo della recitazione gli garba e chissà, forse può trovare l’amore.

Affronta tematiche importanti come lo stress post traumatico e la violenza di genere senza però ridicolizzarli o minimizzarli, aggiungendo invece nuovi spunti di riflessione agli argomenti e rimarcando bene la parte drama e dark. È un mix di generi fluido, spazia dalla pura comedy (il personaggio del ceceno è esilarante) all’azione e al drama senza mostrare cedimenti. La curiosità è data dall’assurdità del conciliare due vite così agli antipodi, come quella dell’arte, che necessita di un’empatia, di un’immedesimazione completa nei panni di un altro, a quella del killer spietato che invece non può provare emozioni nei confronti di nessuno. Ovviamente è ancora più gustoso il fatto che sia sul filo del rasoio, che possa essere scoperto come assassino o dalla polizia o dalle sue nuove amicizie del teatro.

Se ancora non vi basta per iniziare questa serie, aggiungo l’arma segreta: Henry Winkler, Fonzie. Qui nelle vesti dell’insegnante di teatro, nonché mentore positivo di Barry. Un ottimo insegnante ma con difficoltà a trovare ruoli da interpretare.

È una serie di alto livello, ha vinto anche due Emmy. Non che questo sia sinonimo di bontà ma a me piace usarlo a suffragio della qualità. Naturalmente, quando qualcosa che non mi piace vince premi affermo seriamente “ma non è che i premi valgano qualcosa”. Più volte ho pensato potesse essere una versione “opposta” di Breaking Bad, dato che Barry cerca la normalità dopo aver passato la fase “cattiva”. Molto simile nei toni a Better Call Saul. Fatemi sapere.

Comedy

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American Vandal

Inauguro il blog con una delle ultime serie che ho visto. Non è una serie recente ma ha attirato la mia attenzione perché il titolo echeggia alcune più famose come American Horror Story o ancor più American Crime Story ma quel “vandal” mi ha dato l’idea di qualcosa di ironico, come una sorta di parodia. Una piccola specifica: non amo le parodie, mi danno l’impressione di mancanza di originalità ma, per contro, apprezzo l’ironia e volevo capire quale direzione volesse prendere questa serie. Non ho letto molto prima di guardarla: il trailer mi sembrava qualcosa di molto demenziale ma il sapere che era stata candidata a un Emmy ha fatto scattare la scintilla, non tanto per la nomination quanto perché le due cose stonavano nella mia testa.

Presentazione di base: American Vandal è una serie in due stagioni, 2017 e 2018 potete trovarla su Netflix. Durata media di un episodio è circa 40 minuti, ogni stagione è composta da 8 episodi. Genere: mockumentary. È uno dei generi che preferisco per la sua parvenza di oggettività, per il fatto che, per una buona riuscita, i personaggi devono essere ben caratterizzati e richiede una recitazione “naturale” da parte degli attori, che interagiscono con la telecamera come se fosse un personaggio. Alcuni esempi di mockumentary che se non avete visto potete recuperare: Modern FamilyZelig, This is Spinal Tap, Death to 2020, Parks & Recreation, The Blairwitch Project, molti prodotti di Ricky Gervais come Life is too short e Derek (a me manca, purtroppo, ancora The Office) e spesso i miei amati Monty Python si sono serviti del genere per i loro sketch.

Altro elemento che cattura è lo stile investigativo: due studenti di una scuola superiore, membri del giornalino scolastico, risolvono, nelle due stagioni, due casi di atti vandalici ai danni di membri della scuola. Lo spettatore conosce i dettagli dei personaggi e dei fatti insieme ai due giornalisti, con loro fa congetture ed è coinvolto nel ragionamento e nell’indagine: inciampa assieme a loro e entra a conoscenza di indizi sempre insieme a loro. Nella prima stagione i due giornalisti vogliono scoprire la verità in relazione a chi ha disegnato “piselli” sulle auto dei docenti nel parcheggio della scuola e nella seconda, visto il successo della prima che è addirittura finita su Netflix (meta-tv all’ennesima potenza, usata benissimo), sono chiamati da una ragazza di un’altra scuola a indagare su chi sia il “Bandito della Cacca” (Turd Burglar) che perseguita gli studenti. Grazie ai vari personaggi che entrano in contatto coi protagonisti scopriamo diversi punti di vista sugli avvenimenti e sulle persone e scopriamo che anche chi è più amato con la fama di “buono” cela delle falle e segreti scabrosi.

E questo ci consente di passare al terzo elemento, un livello più profondo che lo stile mockumentary riesce a catturare al meglio, forse anche più degli altri generi, è quello sociale: tutte le serie teen ben fatte rivelano i disagi dell’essere adolescenti, raccontano quanto ci si possa sentire soli e la frustrazione della ricerca continua di piacere agli altri. La serie mette in evidenza quanto tutto sia amplificato per quest’ultima generazione a causa dell’avvento dei social, che rende “obbligatorio” il pubblicare, postare, twittare costantemente la propria vita per dimostrare di essere inseriti nel contesto e di essere vivi. L’adolescenza è quella età in cui si è alla disperata ricerca di una propria identità, in cui l’apparenza è tutto ma con problemi e i disagi sono universali che si cerca di celare agli altri sguardi, come il buon Breakfast Club ha tramandato a tante generazioni: “Tutti siamo un po’ strani, solo che qualcuno di noi è più bravo a nasconderlo.”

Se non fosse abbastanza chiaro ho adorato questa serie che consiglio a chi apprezza il genere. Diverte, ha un buon ritmo e riesce bene nel lasciare sospeso lo spettatore al momento giusto con cliffhanger ben pensati e dà ottimi spunti di riflessione.